La Private Label scoppia di salute ed ammazza il commercio
Tutti siamo consapevoli del ruolo fondamentale che la private label svolge nelle strategie assortimentali dei retailer e più o meno tutti conosciamo i dati e le esperienze che dimostrano inequivocabilmente come lo sviluppo di una buona private label sia fortemente correlato alla competitività ed alla redditività dei migliori.
Ma la private label che scoppia di salute sta contribuendo a dipingere un desolante paesaggio di splendidi e tristissimi negozi monomarca.
Sono tanto convinto della potenza della private label, da aver sempre raccomandato ai miei clienti di prestare grandissima attenzione a questo tema e ho avuto persino la ventura di concepire un progetto imprenditoriale fondato su un nuovo concetto di private label. Ma anche le medicine più efficaci, se prese a dosi eccessive o dai soggetti sbagliati, fanno male e possono portare alla morte. Questa banale metafora spiega in realtà molto bene quello che io penso possa succedere (… e forse sta già succedendo) nel mondo del largo consumo.
Si tratta ovviamente di una convinzione basata su ”segnali deboli” (in un contesto in cui la private label copre ormai quasi il 50% delle quantità vendute nei supermercati europei ed è destinata a crescere del 4% all’anno negli USA), meglio percepibili se non ci facciamo abbagliare dai raggi del “sole che splende a mezzogiorno” e riusciamo ad immaginare le implicazioni e gli sviluppi delle idolatrate best practicedel presente.
Da un lato i produttori, preoccupati di garantire ai propri prodotti un adeguato accesso al mercato e avidi di controllare ulteriori segmenti della catena del valore, s’improvvisano commercianti. Questo è oramai lo standard nel segmento del lusso, ma anche i factory outlet e persino molti caffè sono figli di questo orientamento strategico.
Dall’altro i commercianti pretendono sempre più spesso di fare a meno dei produttori o quanto meno delle loro marche. Qualche mese fa mi sono recato in un noto negozio di abbigliamento nel centro di Roma, tradizionalmente apprezzato per la varietà ed il buon gusto del suo assortimento. Ma anche lì la panacea della private label ha colpito duro. Constatare come in alcune categorie (ad esempio gli abiti da uomo) l’offerta fosse sostanzialmente circoscritta alla marca insegna ha prodotto un’ esperienza desolante: le belle boiseries del salone sono apparse all’improvviso come l’inutile orpello di uno squallido negozio di stampo sovietico, dove comperavi quello che c’era, … se c’era.
Probabilmente esperienze meno desolanti (almeno sotto il profilo estetico) si possono fare visitando i negozi di chi, come Aldi e Tesco, hanno posto la private label al centro delle proprie strategie, perché, come ho già accennato, anche la migliore medicina non è la medicina giusta per ogni paziente. Lo stesso dicasi per quei negozi in cui la quota effettiva della private label sia mascherata dall’utilizzo di marche di fantasia (uno studio recente ha dimostrato ad esempio che gran parte dei clienti di Kroger e Target non sono consapevoli del fatto che Simple Truth> e Archer Farms siano le rispettive private label), o in cui, è ad esempio il caso di Eataly, decine e decine delle marche in assortimento siano in realtà di proprietà del Commerciante.
Ma, a prescindere dalle forme e dal variegato know how nella gestione della private label, resta il problema di fondo: da un lato un processo di progressivo “spiazzamento” dei produttori veri e delle marche indipendenti, con la conseguente desertificazione dell’offerta; dall’altro la lenta agonia del commerciante, inteso come soggetto in grado di produrre valore mediante la sapiente selezione dei prodotti e l’addizione di servizi utili per i consumatori finali.
Per fortuna è solo uno scenario figlio di “segnali deboli”, sovrastati dal clamore delle best practice e silenziati dalla pigrizia e dall’omologazione.
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